Per altri occhi

Home
Per altri occhi

il FILM

Per altri occhi
regia di SILVIO SOLDINI e GIORGIO GARINI
Per altri occhi – Avventure quotidiane di un manipolo di ciechi è la storia di ciechi straordinari che non hanno paura del buio e vivono trovando dentro di sé la capacità di vedere il mondo con umorismo e autoironia, la prova di sensibilità di un regista, Silvio Soldini, che da sempre affida alla forza dello sguardo la possibilità di infrangere col sorriso sulle labbra la parete opaca di una cecità che spesso viene dal cuore e non dagli occhi. Perché tante volte, troppe, si perde la vista fermandosi alle apparenze.
.

trailer

«La cosa che viene fuori più di tutte, è che questo film porta allo stupore. Lo stesso che abbiamo vissuto noi facendolo. Mentre giravamo, ci siamo stupiti di quello che trovavamo e che si svolgeva davanti ai nostri occhi.»

Silvio Soldini

 

In copertina: scultura di Felice Tagliaferri, uno dei protagonisti defl film

extra/libro

Storia combattuta di un’empatia

di Stefano Bortolussi
I presupposti c’erano tutti.
Prendiamo un individuo – chiamiamolo, per amore di verità, Stefano – dotato di una memoria visiva, o se preferiamo di un “senso visivo”, che fa acqua da più parti (gli aneddoti sarebbero molti, ma limitiamoci a citare la tendenza a puntare regolarmente dalla parte sbagliata del parcheggio, la parte in cui l’automobile da lui stesso lasciata qualche ora prima non può realisticamente trovarsi, o il divieto di scattare fotografie imposto da parenti e amici intimi che desiderino conservare un’immagine decente di sé, o ancora le croniche difficoltà a esercitare la professione che si è ritagliato – quella di traduttore letterario – ogni volta che nell’originale l’autore si abbandona a una descrizione paesaggistica che vada appena al di là dei dati più semplici e banali).
Ora prendiamo un altro individuo – chiamiamolo, per amore di verità ma anche di simmetria, Stephen – dotato di una memoria visiva prodigiosa, in grado di osservare una scena per pochi istanti e poi disegnarla, anche a distanza di tempo, nei suoi più intimi dettagli, cogliendone sul foglio ogni piccola prospettiva, ogni sorpresa e devianza, ogni curva e angolo, spesso addirittura aggiungendovi qualcosa di suo.
Facciamoli conoscere – pur se, visto che di carta parliamo, soltanto sulla carta – e ritiriamoci di un passo per osservare la piccola conflagrazione risultante, la scintilla di una fascinazione che (e siamo ancora, idealmente, sulla carta) non poteva che essere scritta.
Non conoscevo Stephen Wiltshire.
Non sapevo che, malgrado una grave forma di autismo, fosse un artista famoso, che avesse addirittura una sua galleria permanente nella Royal Opera Arcade di Londra, né che, per restare nella sua natia Inghilterra, sia stato insignito dell’Ordine dell’Impero Britannico per i servizi resi al mondo dell’arte.
Ignoravo che il Gran Saggio Oliver Sacks (che per la mia deficitaria memoria visiva non potrà che avere sempre il volto irsuto del Bill Murray nei Tenenbaum di Wes Anderson) gli avesse dedicato un intero saggio nel suo Un antropologo su Marte.
Ero ignaro della sua vicenda umana e artistica, della sua malattia, del fatto che sia nato nel 1974, l’anno di Starless and Bible Black dei King Crimson, e che (forse, chissà, proprio per questa piccola, aleatoria coincidenza) sia dotato di un orecchio assoluto che gli consente di esprimersi musicalmente in modo straordinariamente efficace e di superare, nel breve spazio della sua “esibizione”, quelle  gabbie comportamentali, quei tic, quelle posture di fuga dal mondo che altrimenti lo accompagnano tenaci, e di abbandonarle in modo così assoluto e totale da spingere un acuto osservatore come il professor Sacks a segnare sul proprio taccuino, in maiuscolo, le parole “AUTISMO SCOMPARE”.
Ero all’oscuro della sua capacità di salire su un elicottero, sorvolare una città per venti minuti, scendere dalla libellula meccanica, entrare in uno studio, sistemarsi davanti a un’enorme tela concava lunga dieci metri e cominciare a disegnare la città appena vista, finendo soltanto dopo averne tracciato ogni singolo, minuto dettaglio.
Ma soprattutto, non potevo sapere che la sua parabola, quella della tela ricurva ma soprattutto quella della sua esperienza di vita, potesse toccarmi così da vicino e nel profondo, trasformandosi dal bruco del semplice interesse alla rara, variegata, delicatissima farfalla dell’empatia.
Stephen Wiltshire, in quanto malato di autismo, è in qualche modo prigioniero della propria mente, dei meccanismi e dei rituali ossessivi in cui le sue sinapsi lo costringono in una sorta di continuo ed eterno corto-circuito cerebrale.
La mia prima, narcisistica tentazione, lo ammetto, è stata quella di tracciare un irriguardoso parallelo fra tale condizione e quella di chi scrive: non siamo, mi sono chiesto, tutti noi che apponiamo parole su fogli bianchi, elettronici e non, vagamente “autistici” nei nostri processi mentali, costretti dai circuiti più o meno funzionanti della nostra immaginazione a girare sempre intorno a noi stessi e (quando ci riusciamo) al mondo come noi lo vediamo, lo pensiamo, lo riproduciamo?
Subito ho provato un moto di vergogna. Tipico, mi sono detto: paragonare una condizione tanto drammatica, emblematica proprio di una dolorosa assenza di comunicazione, alle risibili “sofferenze” di un ego forse lacerato e problematico, ma in ultima istanza completo e, come dire?, pieno. (Forse troppo pieno, è giunta puntuale la battuta del mio personale grillo parlante.)
Ma a quel punto è scattato qualcosa, un automatismo difensivo di quelli che il mio povero Milan sembra avere completamente dimenticato; e dal mio archivio mentale è sorto il quadro, o meglio il percorso, di un’esperienza sì vissuta – l’uso del participio passato è un voluto esorcismo ­– ma per forza di cose mai conclusa, come (per restare in ambito calcistico) una finale di andata vinta di misura ai tempi supplementari senza però conoscere la data, e men che meno l’esito, di quella di ritorno.
Sto parlando di una partita a me ben nota, quella contro la sindrome ossessivo-compulsiva. Un’altra forma, molto meno grave e soprattutto molto meno definitiva, di prigione mentale. Quella che, in forme, gradazioni e modi diversi, può condizionare un’esistenza altrimenti “normale”, costringendoti a dedicare secondi, minuti, ore, giorni a rituali e ripetizioni di formule e gesti, sottraendoli a quella che comunemente chiamiamo vita.
Sfida vinta, dicevo; ma per definizione, appartenendo alla sfera psicologica e mentale, fluida, equilibrata (curiosa scelta linguistica, lo ammetto) e infingarda come poche. Eppure, in ultima analisi, preziosa: non fosse altro che per il guizzo di empatia e sì, comunicazione, che mi ha concesso, a distanza di anni ed esperienze, con quel drammatico, esaltante miscuglio di enigma e portento che risponde al nome di Stephen Wiltshire.
Un uomo il cui straordinario talento, originato in modo crudelmente paradossale dalla malattia stessa e aiutato a svilupparsi da coloro che in lui hanno creduto fin da quando era bambino, gli ha consentito in qualche modo di rinascere al mondo e osservarlo con quella che Sacks – ancora lui, e per me ancora e sempre con le fattezze di Bill Murray – definisce “una visione meravigliosamente diretta e non concettualizzata”.
Un uomo che sembra appartenere all’universo magico ed esemplare del Grande Romanzo: ingenuo, innocente, segnato dal destino come Lord Jim (e più ancora di Jim “uno di noi”, che Conrad mi perdoni), lanciato in uno strenuo, esemplare e in molti sensi eroico percorso di hemingwayana grace under pressure.

stephen wiltshire

“Sorridi al dolore, così lo disarmi”
Intervista ad Annalisa Minetti

di Giacomo Mondadori
Annalisa, facendo ricerche sulla tua vita, si ha la sensazione di trovarsi davanti a una persona vulcanica: sei cantante, atleta, hai fatto l’attrice, l’insegnante di spinning e step, per qualche mese la politica e ultimamente anche la scrittrice. Insomma: non ti sei fatta mancare nulla.
Faccio tutto quello che mi appassiona. Del resto ho sempre la volontà di fare ciò che credo sia di sostegno a messaggi importanti. Attraverso la mia persona e la mia esperienza cerco di trovare sempre un canale diverso per poter dimostrare che tutto è possibile.
Partiamo dagli anni in cui ti venne diagnosticata la malattia, che in pochi anni ti avrebbe portato alla cecità. Quale fu la tua reazione?
Allora… ti stupirò, perché la verità è che quando me l’hanno diagnosticata era il periodo della maturità. Avevo bisogno di avere una diagnosi che mi concedesse un sostegno durante l’esame, perché da molto tempo chiedevo con grande umiltà ai miei insegnanti di potermi aiutare. Loro lo facevano con grande disinvoltura, ma la verità è che di fondo avevo bisogno di questo sostegno e per ottenerlo mi serviva una diagnosi.
Sono andata a fare questa visita al Centro Diagnostico Italiano – avevo praticamente diciotto anni – e lì mi hanno diagnosticato questa retinite pigmentata con degenerazione maculare in un modo anche abbastanza buffo, se vuoi, perché il dottore comincia a farmi domande assurde, tipo: “Signora Minetti, ma lei le stelle le ha mai viste?”. E io ricordavo di tutte le volte in cui fingevo di vederle. Nelle notti di san Lorenzo dicevo sempre: “Ragazzi guardate la stella cadente!”. E loro: “Ma dov’è?”. E io: “Era cadente, ragazzi, non l’avete vista!”.
Non era vero niente, era solo per sentirmi in qualche modo come gli altri. E invece era un errore fatale, perché questo non mi concedeva la libertà di raccontare quello che realmente provavo. Fingevo di vedere e non vedevo. Ero già ipovedente ed ebbi la necessità di andare da questo medico e sentire la sentenza, che era appunto la cecità, che sarebbe sopraggiunta da li a poco e che mi ha fatto sorridere, perché quando me l’ha detto ho provato un senso di libertà. Quando mi ha detto che sarei diventata cieca, che avevo una malattia reale e che non era una bugia, una finzione o un qualcosa… mi sono sentita sollevata, perché attraverso quella diagnosi potevo dire: “Bene, adesso ho bisogno di voi”.
Fino ad allora fingevo di stare bene, quindi non potevo chiedere aiuto; mentre da quel momento avrei potuto chiedere aiuto e questo era fondamentale per me, mi ha dato una sensazione di libertà e gli sorrisi quando me lo disse. Al che lui mi ha guardato e mi ha detto: “Forse non ha capito bene: lei diventerà cieca”. E io gli ho risposto: “Io diventerò cieca, ma non sarò più sola”.
In un momento così delicato, la tua famiglia ti è stata vicino?
Mio papà, mia mamma e i miei fratelli mi hanno insegnato la cultura del sorriso. Mio papà, in particolar modo, una volta mi ha detto: “Figlia mia, se tu sorridi al dolore, è l’unico modo che hai di disarmarlo”. Vedere mio padre piangere… quello è stato dilaniante, per l’amore che provavo per lui, che pregava che fosse lui a diventare cieco e non io. Lì mi ha fatto capire che avevo mancato di rispetto al suo amore e che avevo l’opportunità che tutti hanno. Che era quella di vivere, quella non mi era stata tolta. Quindi potevo giocarmi le mie carte, come se le giocano tutti, ma in maniera diversa.
Tu hai giocato e hai vinto subito, a Sanremo.
Tutto parte ancor prima, quando arriva l’opportunità di partecipare a Miss Italia. Proprio lì ho capito che non dovevo tirarmi indietro, come pensavo fosse più giusto fare, e che dovevo giocarmela come tutte le altre, quella carta. Potevo sognare anch’io di diventare una miss, anche se a occhi chiusi. È stato bellissimo sfilare utilizzando lo stesso metodo che utilizzavo per sciare, quindi radiocomandata, e avere la possibilità di vivere il sogno di diventare una reginetta della bellezza.
Tornando a Sanremo, lo scrittore Aldo Busi ti criticò pesantemente.
Sì, Busi disse che…
… che avevi trasformato una disgrazia in una miniera d’oro.
Lì mi colpì moltissimo, perché erano già alcuni anni che ero non vedente e gli dissi: “Scusi, ma perché aspettare cosi tanto? Canto da quando avevo quindici anni, ho perso la vista a diciotto, perché aspettare di compierne ventuno?”.
In questi anni com’è stato il tuo rapporto con la fede?
Sostanziale: l’aspetto spirituale è sempre stato molto forte nella mia vita. Il rapporto che ho con la fede, e quindi con Dio, è stato di grandissimo aiuto. Io credo sempre e sono convinta che nella vita le cose non accadano per caso e che hai sempre e comunque la sensazione che le cose succedono a te e non agli altri perché Dio vuole che sia così.
Una volta, mi ricordo, dissi piangendo a mio padre: “Perché proprio a me?”. E lui mi rispose: “Perché non a te?”. Lì ho capito, in effetti, che succedeva a me perché probabilmente avevo una forza differente dagli altri. Con quella stessa energia ovviamente ho dato alla mia vita tutti i colori che in qualche modo pensavo, di cui la gente pensava non potessi godere più. È diventato quell’arcobaleno che gli altri pensavano io non potessi più vedere.
Tu, grazie a questa forza, hai fatto qualcosa di clamoroso: hai deciso di diventare un’atleta e di correre il mezzofondo. Nel 2012 hai vinto la medaglia di bronzo alle paralimpiadi di Londra, stabilendo il record del mondo per non vedenti.
Dico una cosa: nella mia carriera sportiva, che è molto breve, io sono ancora una neofita. Io ho iniziato quattro anni fa e in due anni ho preparato una paralimpiade dal nulla. La gente mi diceva: “Non puoi sognare di diventare un’atleta a trentaquattro anni!”. Io rispondevo: “Non lo sogno, io so che lo diventerò, perché Dio vuole che sia cosi”. È successo tutto un insieme di cose, che non sono state casuali.
Una notte feci un sogno, due anni e mezzo prima delle Olimpiadi. Andai di corsa da una mia amica che doveva farmi un tatuaggio, ma non sapevo esattamente che tatuaggio fare. La mia amica mi accolse in casa e mi disse: “Ho fatto un sogno. Sia io che mio marito”. Suo marito è una persona molta profonda. “Abbiamo sognato il volto di Gesù e pensavo di fare qualcosa che avesse a che fare con lui”. Io gli ho detto di aver sognato che correvo e che avevo un tatuaggio e non riuscivo a identificare esattamente che cosa fosse, ma mi sembrava un rosario. Al che quella sera mi guardò e mi disse: “Ok, quello sarà il tuo tatuaggio”.
Da quando mi ha fatto quel rosario sul piede io ho cominciato a correre. Mi sono successe delle cose incredibili legate alla corsa, persone che volevano che corressi con loro. Io non avevo mai corso in vita mia, ero sempre solo andata in palestra, ho fatto tanto spinning, tanto step, tutto quello che normalmente la palestra propone. E invece ho cominciato a correre non per caso, e non per caso ho scoperto che esisteva un cordino che mi permetteva di essere autonoma sotto l’aspetto della corsa. Quanto alle paralimpiadi, ho detto: “Va bene, sono sicura che io quel giorno ci sarò”.
A volte la pista mi sembrava fosse in salita per quanto tutto era più duro. Succedeva di tutto, tipo che il giorno prima della gara dovevo fare concerti a cui non potevo rinunciare, se no avrei dovuto pagare le penali. Era tutto difficile e ogni volta che vedevo una difficoltà, mi dicevo: “È perché vinco, è perché domani vinco”. Allora andavo e vincevo. Non ho mai perso una gara e questo mi sembrava sempre assurdo. Dicevo: non è possibile che io non perda mai una gara e faccia record su record cosi velocemente: è impossibile! O sono un talento o, comunque, ho chi mi promuove dall’alto. L’ho sempre voluta vedere cosi.
Mi racconti un aneddoto sulla tua partecipazione ai giochi paralimpici?
Avevo nel borsello delle scarpe chiodate, che sono l’unica cosa che puoi portare in pista. Ti danno un cesto, all’entrata c’è un tunnel che collega il campo di allenamento al campo dello stadio olimpico e quando siamo entrate nello stadio, alla fine di quel tunnel tu lasci la tuta e rimani nel completino da corsa, metti le chiodate e lasci lì le tue scarpe, ovviamente controllando il tuo borsello della Nazionale.
Nel mio borsello c’erano rosari, tutti i tipi di madonne, statuette, c’erano tutte le cose che i preti nell’arco di quella preparazione durata due anni mi avevano donato, dicendomi: “Vedrai, vincerai”. Ogni volta che me lo dicevano, io prendevo quelle statuette, quelle immaginette e quei rosari, li mettevo nella borsa delle chiodate e li lasciavo lì. Così mi sentivo più protetta. C’era una rosario, in particolare, di Maria Teresa di Calcutta, fatto con le noci di ulivo. Lo mettevo prima delle grandi gare e quello è sempre stato il mio amuleto.
Mi hanno detto che non potevo portarlo in pista, io ho guardato il giudice e gli ho detto: “Ti prego, se non entra lui, se non entra quel borsello con tutti i santini, non posso entrare nemmeno io. Non correrò con due gambe, ma correrò con le ginocchia”. Lui mi ha guardato e mi ha fatto un “in bocca al lupo”. Io gli ho detto “Amen”, ho preso i rosari e sono entrata in pista. Sapevo di non vincere l’oro, perché c’erano due ipovedenti che gareggiavano praticamente da sole. La verità è che il messaggio che volevo sostenere (e che secondo me voleva sostenere Dio) era questo: se sono qui, allora tutto è possibile.
Adesso quanto ti alleni?
Mi alleno tutti i giorni. Sotto la neve, la pioggia: non c’è niente che in qualche modo avvilisce la forza del mio coach. A volte mi alleno anche due volte al giorno, normalmente succede il mercoledì, perché la mattina faccio tutto l’allenamento di forza in palestra e alla sera mi buttano in piscina. Lo faccio per aumentare la mia capacita aerobica e cardiovascolare. Mi fanno lavorare tanto anche in piscina e sulla bicicletta e questo succede due volte a settimana, mentre tutto il resto solo una volta. Ogni dieci giorni ho un giornata di pausa.
Che tipo di rapporto si è instaurato con tuo figlio e quanto ti condiziona la cecità?
Allora ti faccio io una domanda: pensi che esista una madre al mondo che non veda suo figlio con gli occhi del cuore?
Touché.
Io credo di non avere avuto difficoltà con Fabio perché ero sicura che le mamme nei confronti dei figli hanno un’adrenalina tale, legata al sentimento, che è il sentimento più puro al mondo. Quello senza limiti, quello che vive di costanza, senza temere niente. È un sentimento senza paure. Quando non hai paure, ovviamente hai un coraggio che supera qualsiasi montagna, qualsiasi ostacolo, e io sentivo di non avere neanche una paura nei confronti di Fabio. Avevo un cuore che batteva stracolmo di amore per lui e quello avrebbe fatto la differenza. Sono convinta ed è così.
Mentre nella vita di tutti i giorni quali sono le tue difficoltà pratiche?
L’ignoranza della gente. Quelli che non hanno a che fare con la disabilità o che perlomeno la vedono semplicemente come tale. La gente si limita a vedere un disabile in quanto malato e non lo vede invece come una persona che potrebbe diventare, per assurdo, una persona specialmente abile, cioè diversamente abile da te.
Questo è un limite enorme, che è una costante tra la gente e un’educazione che noi non sappiamo dare, perché non c’è più la volontà di educare le persone a essere civili, a essere appassionate di vita, a essere sempre motivate nei confronti della vita stessa. Oggi c’è gente che vive, comunque, a occhi chiusi: io utilizzo il mio lavoro perché la gente possa essere motivata quanto me e appassionata quanto me a questo meraviglioso dono che Dio ci ha fatto, che si chiama vita.
Vorrei che riuscissi a dare un messaggio positivo alle persone che invece non hanno reagito come te e che si chiudono in casa.
Credo che, nella vita, la differenza la faccia la volontà di cambiare le cose, la volontà di sapere che se una situazione non può cambiare, puoi cambiare tu nei confronti di questa situazione e che non c’è mai un bicchiere mezzo vuoto, è sempre mezzo pieno.
Perciò, quando hai questa volontà e ti impegni a far sì che questo diventi il tuo punto di vista nei confronti della vita, allora la vita non ti deluderà mai, perché ci sarà sempre una possibilità. Tutti hanno una possibilità. La vita dipende da te, da nessun altro, e quando la gente capirà che la nostra vita dipende totalmente dalla nostra volontà, allora avremo un paese di gente felice.
Copyright 2014 Jackbel. Powered by Graficandia